Da un po' di tempo a questa parte mi sono soffermata spesso a riflettere su perché certe cose ci emozionino e altre no. Su cosa fa sì che una canzone, un film, un libro ci commuova, ci coinvolga, ci appassioni, ci faccia sorridere o piangere senza destare su altri intorno a noi lo stesso effetto.
Su come mai quella canzone, quel film, quel libro che una volta aveva suscitato in noi tante sensazioni, in un momento diverso delle nostre vite non ci coinvolge più.
La risposta che mi sono data è: perché parlano di noi, perché ci riconosciamo in essi, nei discorsi, nei sentimenti, nelle espressioni. Perché in quel preciso istante sono la voce della nostra anima. La nostra e non di altri. O forse di altri si, ma solo di alcuni.
Perché ci rappresentano in quell'istante ma non per forza in quello successivo.
Ne ho avuto conferma un lunedì di qualche mese fa, quando fox life trasmetteva la puntata della serie medical-drama Grey's Anatomy dal titolo "Sai chi sei?". Io e mia sorella ci trovavamo ancora una volta come ogni settimana sedute sul divano di casa mia, in apprensione per i destini e le vicissitudini dei nostri beniamini.
La puntata è completamente incentrata su Christina e Owen. In quasi un'ora assistiamo allo scorrere veloce di due vicende narrative, uno sorta di "sliding doors" che si dilata nell'arco temporale di una ventina d'anni. Nella prima scopriamo cosa succede ai due come coppia e come singoli individui nel caso in cui sia Christina a perseguire le sue ambizioni e a raggiungere i suoi successi professionali, a discapito della realizzazione personale di Owen; nella seconda a cosa succederebbe se invece la Yang assecondasse il desiderio di famiglia e di genitorialità di Owen, rinunciando alla sua carriera da pluripremiato cardiochirurgo.
La morale dell'episodio è che, qualunque sia la strada che imboccheranno, uno dei due sarà destinato a soffrire perché costretto a rinunciare a ciò che più desidera, a ciò che lo rappresenta, a sé stesso.
I quesiti centrali, che vengono ripetuti in più momenti dell'episodio, sono: Sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?
Finita la puntata Sara mi guarda e si dice contenta per l'ennesimo tiro a segno di Shonda (Rimes, autrice della serie ndr.). Ma così come è arrivata se ne va, non vuole fare tardi perché l'indomani sarà martedì e per lei equivale al primo giorno lavorativo della settimana.
Io trattengo a stento le lacrime, ho il magone in gola e cerco solo qualcuno pronto ad accogliere la mia disperazione.
Sara mi saluta, mi da due baci e chiude dietro di sé la porta di casa mia.
Io mi giro e corro in camera, dove c'è Marco (il mio compagno) sul letto, intento a guardare qualcosa sull'iPad. Mi tuffo tra le sue braccia. Gli chiedo solo di abbracciarmi e di non chiedermi il perché di ciò che sta per succedere, e scoppio in un pianto disperato fatto di lacrime e singhiozzi.
Quelle tre domande, quelle tre semplici domande, sono le stesse che mi accompagnano da tempo. Le stesse che ho il terrore di continuare a pormi tra qualche anno, quando ormai sarà troppo tardi per tornare indietro.
Viviamo in un periodo storico, sociale e culturale particolare. Un periodo il cui emblema è racchiuso nella parola "crisi".
Ne sentiamo parlare alla TV, ne leggiamo quotidianamente sui giornali e in internet, ne abbiamo timore anche quando non ci tocca in prima persona tanto è il clima di terrore che percepiamo intorno a noi.
Ma è davvero giusto che sia un evento esterno a decidere per il destino della nostra esistenza?
Ai tempi della messa in onda dell'episodio di G'sA di cui ho parlato sopra stavo vivendo un condizione che molti miei coetanei sognano. Un lavoro a tempo indeterminato, la convivenza dopo tanti anni di fidanzamento, la possibilità di essere indipendenti e di togliersi soddisfazioni che solo una disponibilità economica consente.
Ma poi ti svegli un giorno e ti rendi conto di essere diventata nella vita tutto ciò che ti eri promessa di non diventare; di aver rinunciato alle tue ambizioni, di fare un lavoro che ti aliena e che giorno dopo giorno fa morire tutti gli aspetti personali e professionali che ti rendono te solo per la certezza di quei mille euro a fine mese. Ti senti in gabbia, una gabbia dorata dalla quale vedi le infinite possibilità di felicità e soddisfazione che potresti cogliere ma dalla quale non trovi una via d'uscita. Senti che quella gabbia ti costringe e vivi con l'angoscia di non uscirne mai.
Passi mesi di sconforto, di introspezione, di apatia, di messa in discussione, di ricerca.
Fino a quando non realizzi che in quella gabbia dorata ti ci sei messa con le tue mani, che sei tu l'unica a potertene liberare, che il resto sono tutte scuse.
Che nella vita ci vuole coraggio per essere felici. Che mi fa più paura la sicurezza di quello che ho che l'incertezza e l'ignoto che mi attende.
E così mi domando per l'ennesima volta: sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?
Ho deciso. Trovo il coraggio di ascoltarmi e mi licenzio.
La gabbia non c'è più. Sono libera, ora.
