lunedì 14 dicembre 2015

Riflessioni sul concetto di Sicurezza. Dal convegno sugli Stati Generali della Sicurezza del 11/12/2015 a Terni

Lo scorso 11 dicembre ho partecipato al convegno sugli Stati Generali della Sicurezza, che si è tenuto presso l’Hotel Garden di Terni per fare il punto della situazione di quello che è lo scenario attuale e tentare di avanzare delle proposte allo scopo di intervenire per il controllo del territorio.
Ho accolto positivamente l’organizzazione di questo convegno poiché quello della sicurezza in generale è un argomento che m’interessa come giovane donna laureata in sociologia, e quella della sicurezza a Terni in particolare è una questione che mi sta a cuore poiché cittadina del capoluogo umbro.

Che cos’è la sicurezza?

Stando a quanto espresso dal Forum Europeo per la Sicurezza nel “Manifesto di Saragozza”, la sicurezza è un bene comune essenziale, alla stregua di altri beni quali il diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla cultura e all’inclusione sociale.
Altro aspetto su cui il Forum Europeo per la Sicurezza mette l’accento è che, se si vuole promuovere e massimizzare la sicurezza, occorre rifiutare qualsiasi strategia che punti a utilizzare la paura, favorendo interventi atti a promuovere la cittadinanza attiva, la consapevolezza dell’appartenenza al territorio urbano e lo sviluppo della vita collettiva.

Alla stregua della società, che non è un costrutto fisso e immobile, anche i concetti che compongono il nostro vocabolario sono mutevoli nel tempo, proprio perché devono dare rappresentazione e significato al contesto in cui sono inseriti e al quale si riferiscono. Lo stesso vale per il concetto di scurezza.
Se pensiamo a una società di tipo industriale, con il termine sicurezza – che spesso era accompagnato dalla specificazione sociale – ci si riferiva a temi come la previdenza, la prevenzione, la cura e l’assistenza.
Oggi, quando parliamo di sicurezza, il rimando è quello al rischio di essere vittima di reati, alla minaccia per le persone e per le proprie cose.

Diversi sociologi si sono interessati al tema sicurezza. Uno su tutti, e del quale vi propongo in questa sede il contributo, è Zygmunt Bauman, interprete della società dell’incertezza che ha fatto del concetto di liquidità la metafora della società moderna.
Bauman, nel tentare di dare una definizione al termine sicurezza, ha individuato tre dimensioni, tre concetti che contribuiscono alla sua strutturazione:
Security, o sicurezza esistenziale;
Safety, o sicurezza personale;
Certainly, o sicurezza cognitiva.

Vediamole nel dettaglio.
L’essere umano è per definizione un essere sociale, che ha bisogno di vivere a contatto con gli altri individui. Per consentire la convivenza delle persone, nel tempo sono stati istituiti apparati giuridici, apparati normativi e convenzioni sociali atti a regolare e disciplinare la convivenza e la collaborazione reciproca. La presenza di questi apparati fa percepire il mondo in cui viviamo come qualcosa di stabile e affidabile. Così come stabili e affidabili sono le abitudini che abbiamo acquisito e che ci permettono di agire quotidianamente con efficacia. Ed è a questo senso di stabilità e affidabilità che si riferisce la dimensione della Security.
Quando parliamo di Safety, invece, la dimensione cui rimandiamo è quella per cui, se ci comportiamo attenendoci all’apparato di giuridico, alle norme, alle convenzioni sociali, niente costituirà un pericolo fatale per il nostro corpo - quindi per la nostra incolumità – e per quelle che Bauman chiama “le sue estensioni”, ossia i nostri beni, la nostra famiglia, la nostra casa, l’ambiente in cui viviamo.
L’ultima dimensione è quella della Certainly. Come probabilmente qualche psicologo saprà spiegarvi meglio di me, cognitivamente siamo portati a riordinare la complessità che ci circonda in categorie, in maniera tale da comprendere e agire la vita in maniera rapida e opportuna. Lo stesso ci succede nello stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato; cosa è socialmente accettato da cosa non è consentito. In questo modo siamo in grado di valutare e indirizzare il comportamento nostro e quello altrui.

Se ci togliamo per un attimo le lenti della sociologia e indossiamo quelle del senso comune, noteremo come ci siano due approcci alla sicurezza: quello reale, quindi il rischio di essere vittima di reati, e quello percepito.
Quello della sicurezza reale è un aspetto comunemente osservato da un insieme di statistiche messe a disposizione da fonti amministrative, quali possono essere le statistiche sulla criminalità, sulla delittuosità, sui processi penali. Benché le fonti di questi dati si siano affinate nel tempo, il quadro che ci rimandano è comunque parziale poiché prende in considerazione solo i reati per cui esiste una denuncia, lasciando sommerse tutte quelle realtà che non sono state portate a conoscenza delle autorità.
All’opposto la sicurezza, anche se sarebbe meglio parlare di insicurezza, percepita: il rischio di criminalità secondo la percezione e la valutazione del senso proprio delle persone. Percezione che può scaturire da diversi fattori, che sarebbe bello approfondire ma che non è questa la sede per dettagliare.
È scontato precisare che non necessariamente questi due approcci coincidono nella loro intensità e densità poiché non è detto che la percezione delle persone vada di pari passo con il quadro presentato nelle statistiche.

Quello che ritengo stia succedendo a Terni, che sta lasciando noi cittadini sgomenti e che ci sta destabilizzando, è che nell’arco di un tempo piuttosto breve abbiamo visto vacillare realmente e percettivamente le tre dimensioni che secondo Bauman costituisco la scurezza.
La nostra città non è più quel luogo sicuro cui eravamo abituati e a cui sentiamo di avere diritto. Lo Stato, la Giustizia, si fondano su criteri di correttezza, su norme, su leggi che non solo non sempre vediamo tramutate in fatti concreti ma che oltretutto sono inadeguate e inefficaci.
Facciamo cose ritenute corrette, abitudinarie, normali e innocue come stare in casa con nostra moglie come è successo al novantenne di Gabelletta, o rientrare in casa prima di andare a cena da nostro figlio come è accaduto alla signora che abitava poco sotto l’ospedale; accudire e amare i nostri figli nonostante il naufragio del matrimonio da cui sono nati, come è successo alle donne uccise dagli ex mariti; girare per le vie della città e assistere alla messa in mostra di corpi che si svendono; starcene seduti fuori da un locale a bere un cocktail con i nostri amici come stava facendo David Raggi. E improvvisamente vediamo minacciata la nostra incolumità.
Questo ci fa piombare in uno stato di insicurezza cognitiva perché realizziamo che tutto può potenzialmente costituire un pericolo, anche cose che non siamo abituati a conoscere e riconoscere come tali.

Viviamo in quella che il sociologo Ulrich Beck ha teorizzato essere la “società del rischio”. Occhio però a non incappare nell’errore di pensare che il riferimento sia a una mera conta degli episodi e dei fattori di rischio. Al contrario, ci dice che occorre fare un passo indietro e interrogarsi sul perché sono aumentati e si sono diversificati i fattori di rischio nella società moderna.
Dato che fino ad ora i risultati ottenuti il termini di politiche della sicurezza non sono stati né positivi né incoraggianti, l’invito è di cambiare prospettiva e lavorare alla ristrutturazione e alla riorganizzazione sociale per rispondere alle nuove forme di rischio al fine di contenerle, reprimerle, risolverle.

Indubbiamente quella degli Stati Generali della Sicurezza è stata un’occasione di confronto di cui Terni aveva bisogno, il primo passo verso la progettazione di azioni per il controllo del territorio che hanno come fine quello di garantire a tutti noi una città sicura, vissuta e vivibile, in cui regni l’integrazione e la coesione sociale.
Ma quello che ci aspettavamo e che ci aspettiamo sono tre cose.
Primo. Che si decida l’obiettivo da raggiungere.
Secondo. Che si definiscano il primo, il secondo e il terzo passo per raggiungere l’obiettivo.
Terzo. Che si stabilisca quando farlo.

venerdì 13 novembre 2015

Be who you are - Sii chi sei

Da un po' di tempo a questa parte mi sono soffermata spesso a riflettere su perché certe cose ci emozionino e altre no. Su cosa fa sì che una canzone, un film, un libro ci commuova, ci coinvolga, ci appassioni, ci faccia sorridere o piangere senza destare su altri intorno a noi lo stesso effetto.
Su come mai quella canzone, quel film, quel libro che una volta aveva suscitato in noi tante sensazioni, in un momento diverso delle nostre vite non ci coinvolge più.
La risposta che mi sono data è: perché parlano di noi, perché ci riconosciamo in essi, nei discorsi, nei sentimenti, nelle espressioni. Perché in quel preciso istante sono la voce della nostra anima. La nostra e non di altri. O forse di altri si, ma solo di alcuni.
Perché ci rappresentano in quell'istante ma non per forza in quello successivo.

Ne ho avuto conferma un lunedì di qualche mese fa, quando fox life trasmetteva la puntata della serie medical-drama Grey's Anatomy dal titolo "Sai chi sei?". Io e mia sorella ci trovavamo ancora una volta come ogni settimana sedute sul divano di casa mia, in apprensione per i destini e le vicissitudini dei nostri beniamini.
La puntata è completamente incentrata su Christina e Owen. In quasi un'ora assistiamo allo scorrere veloce di due vicende narrative, uno sorta di "sliding doors" che si dilata nell'arco temporale di una ventina d'anni. Nella prima scopriamo cosa succede ai due come coppia e come singoli individui nel caso in cui sia Christina a perseguire le sue ambizioni e a raggiungere i suoi successi professionali, a discapito della realizzazione personale di Owen; nella seconda a cosa succederebbe se invece la Yang assecondasse il desiderio di famiglia e di genitorialità di Owen, rinunciando alla sua carriera da pluripremiato cardiochirurgo.
La morale dell'episodio è che, qualunque sia la strada che imboccheranno, uno dei due sarà destinato a soffrire perché costretto a rinunciare a ciò che più desidera, a ciò che lo rappresenta, a sé stesso.
I quesiti centrali, che vengono ripetuti in più momenti dell'episodio, sono: Sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?

Finita la puntata Sara mi guarda e si dice contenta per l'ennesimo tiro a segno di Shonda (Rimes, autrice della serie ndr.). Ma così come è arrivata se ne va, non vuole fare tardi perché l'indomani sarà martedì e per lei equivale al primo giorno lavorativo della settimana.
Io trattengo a stento le lacrime, ho il magone in gola e cerco solo qualcuno pronto ad accogliere la mia disperazione.
Sara mi saluta, mi da due baci e chiude dietro di sé la porta di casa mia.
Io mi giro e corro in camera, dove c'è Marco (il mio compagno) sul letto, intento a guardare qualcosa sull'iPad. Mi tuffo tra le sue braccia. Gli chiedo solo di abbracciarmi e di non chiedermi il perché di ciò che sta per succedere, e scoppio in un pianto disperato fatto di lacrime e singhiozzi.

Quelle tre domande, quelle tre semplici domande, sono le stesse che mi accompagnano da tempo. Le stesse che ho il terrore di continuare a pormi tra qualche anno, quando ormai sarà troppo tardi per tornare indietro.
Viviamo in un periodo storico, sociale e culturale particolare. Un periodo il cui emblema è racchiuso nella parola "crisi".
Ne sentiamo parlare alla TV, ne leggiamo quotidianamente sui giornali e in internet, ne abbiamo timore anche quando non ci tocca in prima persona tanto è il clima di terrore che percepiamo intorno a noi.
Ma è davvero giusto che sia un evento esterno a decidere per il destino della nostra esistenza?

Ai tempi della messa in onda dell'episodio di G'sA di cui ho parlato sopra stavo vivendo un condizione che molti miei coetanei sognano. Un lavoro a tempo indeterminato, la convivenza dopo tanti anni di fidanzamento, la possibilità  di essere indipendenti e di togliersi soddisfazioni che solo una disponibilità economica consente.
Ma poi ti svegli un giorno e ti rendi conto di essere diventata nella vita tutto ciò che ti eri promessa di non diventare; di aver rinunciato alle tue ambizioni, di fare un lavoro che ti aliena e che giorno dopo giorno fa morire tutti gli aspetti personali e professionali che ti rendono te solo per la certezza di quei mille euro a fine mese. Ti senti in gabbia, una gabbia dorata dalla quale vedi le infinite possibilità di felicità e soddisfazione che potresti cogliere ma dalla quale non trovi una via d'uscita. Senti che quella gabbia ti costringe e vivi con l'angoscia di non uscirne mai.

Passi mesi di sconforto, di introspezione, di apatia, di messa in discussione, di ricerca.
Fino a quando non realizzi che in quella gabbia dorata ti ci sei messa con le tue mani, che sei tu l'unica a potertene liberare, che il resto sono tutte scuse.

Che nella vita ci vuole coraggio per essere felici. Che mi fa più paura la sicurezza di quello che ho che l'incertezza e l'ignoto che mi attende.

E così mi domando per l'ennesima volta: sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?

Ho deciso. Trovo il coraggio di ascoltarmi e mi licenzio.
La gabbia non c'è più. Sono libera, ora.

martedì 3 marzo 2015

Pensieri sul concetto di Lovemark

In una puntata della quinta stagione di Grey’s Anatomy, Izzie deve valutare il servizio catering per le nozze di Meredith e Derek ma non può assaggiare niente dato che, di li a poche ore, dovrà essere operata. Chiede così ad Alex di descriverle il sapore del gambero e del pollo in modo da poter decidere quale dei due piatti inserire nel menù. Inizialmente Alex, un po’ come faremmo tutti, si limita banalmente ad affermare che il gambero sa di gambero e il pollo sa di pollo. Poi capisce che organizzare quel matrimonio è importante per Izzie e che lei ha bisogno di qualcosa di più che un commento ovvio. Di qualcosa che vada al di là di ciò che conosce già.

Alex da nuovamente un morso, prima a l’uno poi all’altro, e le dice che “il gambero è un po’ dolce e piccante. Sai, un po’ come la nostra prima sera. La parte bella. Quella in cui ti ho baciata sul portico. Il pollo è come una gita al mare in macchina, con i finestrini giù e il cane che si sporge. Come quando sei piccolo. Sa di sale. Sa di buono.”
Il commento ovvio e banale di Alex ricorda le vecchie réclame, nelle quali i prodotti venivano presentati descrivendone modalità d’uso, benefici e funzionalità. Lo spettatore si trovava davanti ad uno spot che gli consentiva di conoscere il brand e di riconoscerlo e sceglierlo nel punto vendita.
La prova da superare per il brand, una volta essere stato acquistato, era dimostrare di possedere la qualità che prometteva, di aver meritato che la scelta fosse ricaduta su di lui e di essere all’altezza del differenziale di prezzo rispetto ad un prodotto “non marca”, convincendo in questo modo il consumatore a ripetere l’acquisto nel tempo.
Nell’era postmoderna – caratterizzata dalla proliferazione di mezzi di comunicazione di massa, dal moltiplicarsi dell’offerta, dal nascere continuo di nuove private label, dalla presenza costante di promozioni – il consumatore è divenuto più esigente, più selettivo e più autonomo; in grado di comprendere il funzionamento del brand e come questo intende agire su di lui. Ha acquisito competenza nel muoversi all’interno del mondo dei consumi. Di conseguenza, il brand con le sue strategie non “attacca” più, non è più sufficiente a garantire la fidelizzazione del consumatore.
È necessario che le aziende superino se stesse, che inventino un nuovo modo di comunicare con il consumatore.
Un po’ come ha fatto Alex con Izzie, il brand dovrebbe parlare di se raccontando una storia, che è anche la storia del consumatore. Storia di un mondo possibile e ideale nel quale portare il consumatore. Storia di un sogno che, con il brand accanto, può diventare realtà.
Raccontare storie per parlare di un prodotto o di un servizio è una degli elementi che Kevin Roberts, CEO Worldwide di Saatchi & Saatchi, indica come capace di far sbocciare tra consumatore e brand un nuovo tipo di sentimento: l’Amore.
È costruendo una relazione duratura con il consumatore, infatti, che un brand può fare il salto di qualità. E quale sentimento riesce a coinvolgerci tanto a lungo e intensamente quanto l’amore?
Come indica il titolo stesso del suo testo, è il Lovemark il futuro oltre il brand; la nuova frontiera del marketing.
I tre componenti necessari per costruire un Lovemark sono: Mistero, Sensualità e Intimità.
È mettendo in campo costantemente e contemporaneamente questi tre elementi che Roberts assicura alle aziende di poter far innamorare i consumatori, lavorando sulle loro emozioni e sul loro coinvolgimento passionale.
Mistero e Intimità consentono di creare un legame empatico e di lunga durata con il consumatore, andando ad attingere dai suoi sogni, dalla sua storia e dalle sue aspirazioni. Producendo un meccanismo di identificazione tra individuo e marca.
La Sensualità – termine che richiama i cinque sensi – rappresenta invece la scorciatoia diretta verso le emozioni umane. I cinque sensi sono talmente diretti ed immediati che non si possono né ignorare né ingannare. Riescono a parlare direttamente al consumatore con il linguaggio delle emozioni, senza bisogno di parole.
Le marche che raggiungono la status di Lovemark sono quelle che riescono ad evocare nel consumatore un sentimento di grande Rispetto e che, facendoci innamorare di se, ottengono la nostra Fedeltà Oltre la Ragione.
Quello che un Lovemark si propone di fare è mettere il consumatore al centro della sua ricerca, prestando attenzione alle cose che spera e sogna; a quello che ama, che odia e che teme; a ciò che vuole e di cui ha bisogno, ma anche a ciò che lo annoia. Il Lovemark non si deve interessare semplicemente a quello che il consumatore acquista e usa ma deve rivolgere il suo sguardo a quello che per l’individuo ha significato e importanza. A cosa per lui conta di più. A quello che lo fa emozionare.

Se Alex potesse scegliere, voterebbe senz’altro per il gambero.  E voi?


martedì 15 luglio 2014

mercoledì 6 febbraio 2013

La ricerca della felicità

È trascorso un anno, ormai, da quando mi sono laureata e purtroppo - come molti altri giovani italiani, indipendentemente dal livello di istruzione raggiunto e dalle aspirazioni professionali - mi trovo a dover fare i conti con la difficoltà, non tanto e non solo a trovare un posto di lavoro, ma addirittura a poter fare esperienze professionalizzanti come stage scarsamente retribuiti o semplici affiancamenti sul campo a professionisti dai quali apprendere insegnamenti pratici.
Non sono infatti un mistero i dati diffusi dall'ISTAT sulla disoccupazione giovanile che confermano questa triste tendenza.
Al senso di onnipotenza e alla carica positiva del post-laurea hanno piano piano fatto seguito l'attesa, la delusione, la tristezza, la rassegnazione.
Oltretutto c'è un altro aspetto del passaggio dal mondo dell'istruzione a quello del lavoro che vorrei denunciare: il totale abbandono a noi stessi senza un concreto ponte di connessione tra le due realtà.
Fino ad un giorno prima hai uno scopo, degli orari e della scadenze da rispettare, una strada segnata che non devi far altro che percorrere, e il giorno dopo ti trovi a brancolare nel buio, senza aver ben chiaro in mente cosa fare né cosa ne sarà di te.
La cosa ancora più triste poi, almeno per me, è che più passa il tempo più vanno scemando la carica e la volontà che spingono a realizzare i propri sogni, a inseguire le proprie ambizioni.
O forse dovrei correggermi e scrivere "più passava il tempo più andavano scemando la carica e la volontà...". Già, perché a volte basta davvero poco per ritrovare la grinta!

Sono sempre stata una persona ottimista, che cerca di trovare il lato positivo delle cose, di non affliggersi troppo davanti alle difficoltà - se non nel momento immediatamente successivo al presentarsi di una situazione problematica, quando la cosa necessita di essere metabolizzata e si deve riflettere su come affrontarla, momento in cui credo sia abbastanza umano scoraggiarsi un po' o lasciarsi affogare leggermente nel mare della drammaticità, della tristezza, della preoccupazione.
Insomma, una di quelle persone che vede il bicchiere mezzo pieno.

Tuttavia, e non dico questo per scaricare su qualcun altro la responsabilità del mio "arrendermi alla situazione", ci sono stati momenti in questi mesi in cui la vicinanza con persone dallo stato d'animo meno positivo rispetto al mio, che si angosciano davanti al minimo problema e lo vivono come se fosse una sciagura, che hanno una propensione alla negatività che si riflette sui loro discorsi e sul loro modo di approcciare alla vita, che passano il tempo a crogiolarsi sui propri drammi se non, addirittura, a "crearsene" - detto in parole povere: sono pessimisti! - mi ha trascinata in questo vortice di angoscia ed apatia.

È accaduto, ad esempio, che io manifestassi entusiasmo per un'idea venutami in mente; per una buona occasione che mi si presentava; per la percezione di un "barlume di speranza" in un periodo buio dal punto di vista di concrete possibilità e ottenessi in risposta parole o toni che smorzavano questo entusiasmo; espressioni facciali indifferenti, contrariate o "invidiose" che tradivano belle parole pronunciate dalla bocca; se non, addirittura, silenzi che mettevano a tacere la discussione.
A volte era sufficiente che qualcuno mi riportasse costantemente brutte notizie, manifestasse astio o antipatia per qualcosa o qualcuno per buttarmi giù o farmi provare gli stessi sentimenti.
Lontana dalla loro presenza, però, ritornavo quasi del tutto ad essere me stessa. Quasi del tutto perchè, come con le pedine del domino, a mia volta sfogavo la frustrazione e riversavo il malumore sulle persone a me più prossime.

È successo anche a voi?

Indipendentemente dalla frequenza con cui ciò vi sia accaduto, e presjcindendo tanto dal contesto in cui ciò è avvenuto quanto dall'oggetto del dibattere, suppongo sappiate come ci si senta.

Mi rendevo conto dell'influenza che questi episodi - sommati l'uno all'altro e non controbilanciati da un sufficiente numero di incontri e scambi positivi - stavano avendo su di me, ma non riuscivo a comprenderli a pieno né a gestirli. Un po' come quando si ha un pensiero ma non si riesce ad elaborarlo o esprimerlo con parole proprie fino a quando non si legge o si ascolta qualcosa e solo allora quelle parole, scritte o pronunciate da qualcun altro ma che sembrano parlare proprio di noi, danno voce a ciò che non riuscivamo ad esprimere, facendoci assumere consapevolezza.
Questa occasione, per me, è arrivata come un dono - e non solo in senso metaforico! Infatti, in occasione del mio compleanno, mia zia Daiana mi ha regalato la possibilità di partecipare con lei ad un corso di formazione dal titolo "Conoscere e valutare il comportamento umano".
Tema centrale: la scala del tono emozionale.

È stata un'esperienza bellissima, sia perché ho potuto trascorrere del tempo da sola con lei - cosa che, purtroppo, accade raramente - sia perché ho avuto la possibilità di fare luce su qualcosa che sentivo ma non conoscevo.

La scala del tono emozionale è stata elaborata da Ron Hubbard. Probabilmente, detto così, questo nome non vi dice nulla ma se si pronuncia quello della chiesa da lui fondata sicuramente tutti saprete , seppur vagamente, di chi stiamo parlando. Ron Hubbard, infatti, è il fondatore di Scientology.

Qui apro una piccola parentesi.
Quando sono andata al corso non avevo assolutamente idea che la scala del tono facesse parte della tecnologia hubbardiana per la comprensione del pensiero umano. A dirla tutta non sapevo e non so quasi niente di lui e di Scientology, se non che Tom Cruise è uno degli adepti di questa "setta" e che viene accusato dalla stampa di subirne profondamente l'influenza, soprattutto per quello che concerne la vita privata. Insomma, come per tutte le cose di cui si sa niente e quel poco che se ne sa è negativo, avevo un pregiudizio.
Fatto sta che quando la formatrice ha detto ad un ragazzo presente al corso "Se vuoi farmi domande su Scientology fai pure, tanto Daiana non ha problemi a sentirne parlare." io sono entrata per qualche secondo in uno stato di shock.
Scientology? E che cavolo c'entra! Oddio, ma dove sono capitata?!
Tuttavia, alla stregua di quel giorno, non voglio fermarmi alla prima impressione, al pregiudizio. Né intendo qui esprimere alcun giudizio di valore su Hubbard e/o Scientology. Voglio solo parlare della scala del tono perché la trovo interessante e, a mio avviso, utile.
Chiusa parentesi!

Per tono si intende lo stato emotivo, temporaneo o costante, di una persona.
Ognuno di noi ha uno stato emotivo cronico, che gli appartiene. Ma questo tono può, a seconda delle situazioni o delle persone da cui si è circondati, alzarsi o abbassarsi.
Alcuni toni riscontrati da Hubbard sono l'entusiasmo, l'allegria, il forte interesse, il conservatorismo, il leggero interesse, la soddisfazione, la noia, l'antagonismo, la collera, l'odio, l'ostilità nascosta, la paura, l'afflizione, l'apatia.
Ad ogni tono corrisponde un tipo di personalità.
I primi sette sono toni razionali, i secondi sette irrazionali.
A meno che non si sia abbastanza forti, sicuri di sé, o in grado di gestire e risollevare il tono basso altrui è quasi automatico che chi ha un tono inferiore al nostro ci trascini giù. Oltrettutto, maggiore è la distanza di tono, maggiore è la potenza dell'influenza subita. Specie se la persona che ci troviamo davanti è l'antisociale.

La personalità antisociale è un tipo di personalità negativa, che rema contro gli interessi del contesto in cui si trova inserita.
Sono dodici le caratteristiche della personalità antisociale.
1) Quando parla si serve solo di grosse generalità, ma se si approfondisce la questione ne emerge che l'antisociale ha esteso all'intera società il pensiero di un singolo individuo o comunque di pochi;
2) Diffonde principalmente cattive notizie, osservazioni ostili, denigrazioni;
3) Trasmette il peggio delle notizie, amplificando quelle negative e stoppando quelle positive;
4) Non risponde al trattamento, alla correzione, alla psicoterapia;
5) Intorno a tale personalità troviamo persone che conducono una vita incerta, piena di fallimenti e insuccessi;
6) Quando gli capita qualcosa di brutto se la prende con il bersaglio sbagliato senza affrontare chi causa realmente la sua sventura;
7) Non è in grado in portare avanti un ciclo d'azione e si circonda per questo di progetti incompleti;
8) Confessa i propri crimini più allarmanti solo se costretto a farlo e non ha il minimo senso di responsabilità. Le azioni hanno poco o nulla a che fare con la sua volontà, le cose "sono semplicemente successe!";
9) Sostiene solo gruppi distruttivi e si infuria contro gruppi costruttivi e di miglioramento;
10) Approva solo azioni distruttive e combatte contro azioni o attività costruttive;
11) Aiutare gli altri è un'attività che lo fa impazzire mentre sostiene le attività che distruggono in nome dell'aiuto;
12) Ha un pessimo senso della proprietà.

Ovviamente non temete se vi riconoscete in alcune di queste caratteristiche. Per due motivi. Primo, non sono sufficienti alcune di queste per fare di voi una persona antisociale. Secondo, la persona antisociale non ammette nemmeno a sé stessa la propria natura perciò non si identifica con nessuna di esse.

La ragione alla base di tutti questi comportamenti è il terrore nascosto nei confronti degli altri. È inconsciamente consapevole che non ha capacità mentre gli altri si. Perciò si impegna affinché gli altri falliscano in maniera tale da restare il migliore.

Naturalmente il caso della personalità antisociale è un caso estremo e, fortunatamente, costituisce una minoranza della nostra società.
Tuttavia il punto su cui vorrei mettere l'accento è il forte potere di influenza che la personalità antisociale in particolare, e le personalità irrazionali in generale, hanno di influenzare i razionali o comunque quelli con un tono più alto.
Più stiamo a contatto con persone dal tono basso, meno sappiamo essere noi loro trascinatori, più sprofondiamo.

Fortunatamente non credo di avere intorno persone antisociali. Magari mi sono imbattuta per troppo tempo in antagonisti, afflitti o apatici. Li ho riconosciuti ma non sono stata in grado di innalzarli né di impedire che mi trascinassero.
Però è bastata una serata con due ragazzi mai visti prima, che mi spingessero a parlare della sociologia, del mio percorso di studi, delle mie ambizioni, del mio blog. Che mi ascoltassero con sincero interesse per farmi ricordare chi sono, da dove vengo e dove voglio andare per sollevarmi e farmi ritrovare l'entusiasmo.
Il tono che fino a ieri mi apparteneva!

P.S. Grazie a Luca e Agnese, inconsapevoli ri-attivatori di un meccanismo bloccato.
P.P.S. Sono dell'idea che la nostra volontà sia alla base di tutto. Che i primi ad ostacolare la nostra felicità a volte siamo proprio noi stessi. Perciò, forte di questo pensiero, mi adopererò per inseguire i miei sogni, per restare fedele a me stessa e non farmi scoraggiare.



Ehi non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa, neanche a me! Ok? Se hai un sogno tu, lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non lo sai fare. Se hai un sogno inseguilo. Punto!
Chris Gardner (Will Smith)
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/film/l/la-ricerca-della-felicita-(2007)/citazione-61790>

giovedì 20 dicembre 2012

Il potere della cultura

Il tema della scuola da sempre cattura la mia attenzione. Per una serie di motivi.
Innanzi tutto perché mi appassiona tutto ciò che riguarda il mondo dell'infanzia e dell'adolescenza, del quale l'istruzione riveste un ruolo fondamentale. E poi perché mi interessa analizzare l'evoluzione del sistema scolastico. Come è cambiato negli anni il ruolo dell'insegnante, quale evoluzione ha avuto il rapporto docente - discente, come i genitori degli alunni valutano la figura dei professori e come questa valutazione possa incidere sul modo dei figli di rivolgersi a questi. Tanto per citare alcuni esempi.

In questi giorni sono molti i feedback che ho ricevuto e che mi hanno portata a riflettere sul l'istruzione pubblica in Italia.
Primo su tutti l'ambitissimo "concorsone", al quale hanno preso parte i circa trecentomila aspiranti insegnanti che ambiscono ad una delle quasi dodicimila cattedre messe a disposizione dal MIUR.
Il secondo - e probabilmente per qualcuno meno nobile dei tre - la visione del film, datato 1995 e ispirato al romanzo autobiografico "My posse don't do their homework" di LouAnne Johnson, "Pensieri pericolosi. Dangerous minds". (Lo ammetto, la figura del professore alla "L'attimo fuggente" mi da una carica pazzesca. Vorrei essere io quella persona per qualcuno!)
Terzo, il commento del Direttore del TG di La7 Enrico Mentana su Twitter a "La più bella del mondo", il monologo di Roberto Benigni andato in onda nella prima serata di Rai Uno di lunedì 17 dicembre, nel quale il comico fiorentino ha raccontato la Costituzione italiana. Twitter che cita: "Quand'ero ragazzo la Costituzione si studiava col prezioso Bobbio-Pierandrei. Se ora ci vuole Benigni per scoprirla la scuola va proprio male".

La breve riflessione che voglio condividere è che, a mio avviso, quella dell'insegnamento - qualunque sia il grado in cui viene esercitata - è una pratica che non può essere ridotta alla mera attività di trasmissione di nozioni da un insegnante ai suoi allievi sulla base di un programma didattico stabilito a livello nazionale.
L'insegnante dovrebbe essere qualcosa di più nobile di un semplice funzionario statale dato che ha un potere nelle sue mani di cui a volte non è pienamente consapevole: quello di formare gli adulti di domani.
Dovrebbe perciò essere prima di tutto una persona appassionata della materia che insegna e del mestiere che si appresta a fare. Perché solo con la passione si trasmette qualcosa che viene non solo appreso dall'alunno sul momento e per quel momento ma interiorizzato, coltivato, ricordato nel tempo.
Ma soprattutto una persona che abbia rispetto per le categorie sociali con cui entra in contatto (bambini, ragazzi, adolescenti); che riconosca l'effettivo valore del ruolo che ricopre e ne sappia fare buon uso.
Il suo compito dovrebbe essere non solo quello di educare i ragazzi alla letteratura, alla matematica, alla storia, alla geografia ma alla vita. Far capire loro che la cultura è uno strumento che gli permetterà di essere consapevoli del mondo che li circonda, di riflettere sul genere di persona che vogliono essere e reali artefici del proprio destino.
Dovrebbe infondere nelle loro menti il concetto che andare a scuola non è un obbligo noioso a cui sono stati costretti dai "grandi" ma un'occasione di crescita di cui dover fare tesoro perché solo la conoscenza produce ragionamento, attiva la mente, genera nuove idee.



"E ora, miei adorati, imparerete di nuovo a pensare con la vostra testa, imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo."

mercoledì 14 novembre 2012

A ognuno il suo mestiere...

Ho da poco tempo frequentato un corso di formazione organizzato dall'ISTAT e rivolto a chi, come me, nel prossimo mese si dedicherà all'attività di rilevatore per una ricerca commissionata ad ogni nazione dalla Comunità Europea.
Il progetto, al di là del tema oggetto di indagine che potrebbe essere considerato più o meno interessante, ha una sua importanza, una sua ragion d'essere, una dignità ma soprattutto ha alle spalle un duro lavoro svolto dai ricercatori in fase di progettazione, prova e revisione del questionario.
Qualunque domanda e qualunque tipo di alternativa di risposta proposte, qualsiasi tipo di indicazioni date al rilevatore su come o cosa leggere delle informazioni indicate, hanno un loro perché. Non sono stati inseriti per caso.
Ci sono inoltre tutta una serie di regole sul comportamento in caso di intervista con questionario che il rilevatore dovrebbe rigorosamente rispettare per non compromettere la qualità del dato.
Oltre a ciò, sarebbe auspicabile che questi comprenda a pieno quali sono le finalità della ricerca e qual'è il significato che il ricercatore attribuisce alle varie domande e/o sezioni del questionario in modo tale che ci sia una univocità di interpretazione che potrà essere trasmessa dall'intervistatore all'intervistato nel caso in cui quest'ultimo chieda chiarimenti.
Tutto questo potrebbe essere "recepito" e appreso in maniera sufficiente durante un corso di formazione di così poche ore - nel caso in cui non si tratti di nozioni già acquisite - solo se il discente è effettivamente interessato e motivato a svolgere al meglio il proprio lavoro. Altrimenti potrebbe banalizzare il suo compito e compromettere la rilevazione. Come? Non leggendo le domande per intero e nel modo in cui sono state scritte; non enunciando tutte le alternative di risposta proposte; saltando a piè pari una domanda solo perché si pensa di poter rispondere per l'intervistato o addirittura perché si pensa che "l'intervistato potrebbe pensare che questa domanda è banale perciò io non la pongo..." (E vi assicuro che durante il corso ho sentito cose anche peggiori... Poi mi inacidisco e faccio un casino visto che io credo fermamente nella ricerca sociale e mi imbestialisco se c'è chi la maltratta. E qui chiudo altrimenti la cosa potrebbe degenerare e potrei passarmene con gli insulti!).
Perciò, se è vero che un corso di formazione come quello di cui ho parlato può fornire le indicazioni generali per svolgere bene il compito di rilevatore, è pur vero che solo chi ha frequentato un corso di laurea in sociologia e, in particolare, ha studiato metodologia e tecnica della ricerca sociale, può veramente conoscere e sentire il peso della responsabilità di una buona rilevazione.

Perciò, è vero che ogni persona è a se e che conta la serietà con cui le cose si fanno, però noi studenti di sociologia dovremmo essere largamente preferiti quando si fanno le selezioni per questo genere di lavoro.