lunedì 14 dicembre 2015

Riflessioni sul concetto di Sicurezza. Dal convegno sugli Stati Generali della Sicurezza del 11/12/2015 a Terni

Lo scorso 11 dicembre ho partecipato al convegno sugli Stati Generali della Sicurezza, che si è tenuto presso l’Hotel Garden di Terni per fare il punto della situazione di quello che è lo scenario attuale e tentare di avanzare delle proposte allo scopo di intervenire per il controllo del territorio.
Ho accolto positivamente l’organizzazione di questo convegno poiché quello della sicurezza in generale è un argomento che m’interessa come giovane donna laureata in sociologia, e quella della sicurezza a Terni in particolare è una questione che mi sta a cuore poiché cittadina del capoluogo umbro.

Che cos’è la sicurezza?

Stando a quanto espresso dal Forum Europeo per la Sicurezza nel “Manifesto di Saragozza”, la sicurezza è un bene comune essenziale, alla stregua di altri beni quali il diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla cultura e all’inclusione sociale.
Altro aspetto su cui il Forum Europeo per la Sicurezza mette l’accento è che, se si vuole promuovere e massimizzare la sicurezza, occorre rifiutare qualsiasi strategia che punti a utilizzare la paura, favorendo interventi atti a promuovere la cittadinanza attiva, la consapevolezza dell’appartenenza al territorio urbano e lo sviluppo della vita collettiva.

Alla stregua della società, che non è un costrutto fisso e immobile, anche i concetti che compongono il nostro vocabolario sono mutevoli nel tempo, proprio perché devono dare rappresentazione e significato al contesto in cui sono inseriti e al quale si riferiscono. Lo stesso vale per il concetto di scurezza.
Se pensiamo a una società di tipo industriale, con il termine sicurezza – che spesso era accompagnato dalla specificazione sociale – ci si riferiva a temi come la previdenza, la prevenzione, la cura e l’assistenza.
Oggi, quando parliamo di sicurezza, il rimando è quello al rischio di essere vittima di reati, alla minaccia per le persone e per le proprie cose.

Diversi sociologi si sono interessati al tema sicurezza. Uno su tutti, e del quale vi propongo in questa sede il contributo, è Zygmunt Bauman, interprete della società dell’incertezza che ha fatto del concetto di liquidità la metafora della società moderna.
Bauman, nel tentare di dare una definizione al termine sicurezza, ha individuato tre dimensioni, tre concetti che contribuiscono alla sua strutturazione:
Security, o sicurezza esistenziale;
Safety, o sicurezza personale;
Certainly, o sicurezza cognitiva.

Vediamole nel dettaglio.
L’essere umano è per definizione un essere sociale, che ha bisogno di vivere a contatto con gli altri individui. Per consentire la convivenza delle persone, nel tempo sono stati istituiti apparati giuridici, apparati normativi e convenzioni sociali atti a regolare e disciplinare la convivenza e la collaborazione reciproca. La presenza di questi apparati fa percepire il mondo in cui viviamo come qualcosa di stabile e affidabile. Così come stabili e affidabili sono le abitudini che abbiamo acquisito e che ci permettono di agire quotidianamente con efficacia. Ed è a questo senso di stabilità e affidabilità che si riferisce la dimensione della Security.
Quando parliamo di Safety, invece, la dimensione cui rimandiamo è quella per cui, se ci comportiamo attenendoci all’apparato di giuridico, alle norme, alle convenzioni sociali, niente costituirà un pericolo fatale per il nostro corpo - quindi per la nostra incolumità – e per quelle che Bauman chiama “le sue estensioni”, ossia i nostri beni, la nostra famiglia, la nostra casa, l’ambiente in cui viviamo.
L’ultima dimensione è quella della Certainly. Come probabilmente qualche psicologo saprà spiegarvi meglio di me, cognitivamente siamo portati a riordinare la complessità che ci circonda in categorie, in maniera tale da comprendere e agire la vita in maniera rapida e opportuna. Lo stesso ci succede nello stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato; cosa è socialmente accettato da cosa non è consentito. In questo modo siamo in grado di valutare e indirizzare il comportamento nostro e quello altrui.

Se ci togliamo per un attimo le lenti della sociologia e indossiamo quelle del senso comune, noteremo come ci siano due approcci alla sicurezza: quello reale, quindi il rischio di essere vittima di reati, e quello percepito.
Quello della sicurezza reale è un aspetto comunemente osservato da un insieme di statistiche messe a disposizione da fonti amministrative, quali possono essere le statistiche sulla criminalità, sulla delittuosità, sui processi penali. Benché le fonti di questi dati si siano affinate nel tempo, il quadro che ci rimandano è comunque parziale poiché prende in considerazione solo i reati per cui esiste una denuncia, lasciando sommerse tutte quelle realtà che non sono state portate a conoscenza delle autorità.
All’opposto la sicurezza, anche se sarebbe meglio parlare di insicurezza, percepita: il rischio di criminalità secondo la percezione e la valutazione del senso proprio delle persone. Percezione che può scaturire da diversi fattori, che sarebbe bello approfondire ma che non è questa la sede per dettagliare.
È scontato precisare che non necessariamente questi due approcci coincidono nella loro intensità e densità poiché non è detto che la percezione delle persone vada di pari passo con il quadro presentato nelle statistiche.

Quello che ritengo stia succedendo a Terni, che sta lasciando noi cittadini sgomenti e che ci sta destabilizzando, è che nell’arco di un tempo piuttosto breve abbiamo visto vacillare realmente e percettivamente le tre dimensioni che secondo Bauman costituisco la scurezza.
La nostra città non è più quel luogo sicuro cui eravamo abituati e a cui sentiamo di avere diritto. Lo Stato, la Giustizia, si fondano su criteri di correttezza, su norme, su leggi che non solo non sempre vediamo tramutate in fatti concreti ma che oltretutto sono inadeguate e inefficaci.
Facciamo cose ritenute corrette, abitudinarie, normali e innocue come stare in casa con nostra moglie come è successo al novantenne di Gabelletta, o rientrare in casa prima di andare a cena da nostro figlio come è accaduto alla signora che abitava poco sotto l’ospedale; accudire e amare i nostri figli nonostante il naufragio del matrimonio da cui sono nati, come è successo alle donne uccise dagli ex mariti; girare per le vie della città e assistere alla messa in mostra di corpi che si svendono; starcene seduti fuori da un locale a bere un cocktail con i nostri amici come stava facendo David Raggi. E improvvisamente vediamo minacciata la nostra incolumità.
Questo ci fa piombare in uno stato di insicurezza cognitiva perché realizziamo che tutto può potenzialmente costituire un pericolo, anche cose che non siamo abituati a conoscere e riconoscere come tali.

Viviamo in quella che il sociologo Ulrich Beck ha teorizzato essere la “società del rischio”. Occhio però a non incappare nell’errore di pensare che il riferimento sia a una mera conta degli episodi e dei fattori di rischio. Al contrario, ci dice che occorre fare un passo indietro e interrogarsi sul perché sono aumentati e si sono diversificati i fattori di rischio nella società moderna.
Dato che fino ad ora i risultati ottenuti il termini di politiche della sicurezza non sono stati né positivi né incoraggianti, l’invito è di cambiare prospettiva e lavorare alla ristrutturazione e alla riorganizzazione sociale per rispondere alle nuove forme di rischio al fine di contenerle, reprimerle, risolverle.

Indubbiamente quella degli Stati Generali della Sicurezza è stata un’occasione di confronto di cui Terni aveva bisogno, il primo passo verso la progettazione di azioni per il controllo del territorio che hanno come fine quello di garantire a tutti noi una città sicura, vissuta e vivibile, in cui regni l’integrazione e la coesione sociale.
Ma quello che ci aspettavamo e che ci aspettiamo sono tre cose.
Primo. Che si decida l’obiettivo da raggiungere.
Secondo. Che si definiscano il primo, il secondo e il terzo passo per raggiungere l’obiettivo.
Terzo. Che si stabilisca quando farlo.

venerdì 13 novembre 2015

Be who you are - Sii chi sei

Da un po' di tempo a questa parte mi sono soffermata spesso a riflettere su perché certe cose ci emozionino e altre no. Su cosa fa sì che una canzone, un film, un libro ci commuova, ci coinvolga, ci appassioni, ci faccia sorridere o piangere senza destare su altri intorno a noi lo stesso effetto.
Su come mai quella canzone, quel film, quel libro che una volta aveva suscitato in noi tante sensazioni, in un momento diverso delle nostre vite non ci coinvolge più.
La risposta che mi sono data è: perché parlano di noi, perché ci riconosciamo in essi, nei discorsi, nei sentimenti, nelle espressioni. Perché in quel preciso istante sono la voce della nostra anima. La nostra e non di altri. O forse di altri si, ma solo di alcuni.
Perché ci rappresentano in quell'istante ma non per forza in quello successivo.

Ne ho avuto conferma un lunedì di qualche mese fa, quando fox life trasmetteva la puntata della serie medical-drama Grey's Anatomy dal titolo "Sai chi sei?". Io e mia sorella ci trovavamo ancora una volta come ogni settimana sedute sul divano di casa mia, in apprensione per i destini e le vicissitudini dei nostri beniamini.
La puntata è completamente incentrata su Christina e Owen. In quasi un'ora assistiamo allo scorrere veloce di due vicende narrative, uno sorta di "sliding doors" che si dilata nell'arco temporale di una ventina d'anni. Nella prima scopriamo cosa succede ai due come coppia e come singoli individui nel caso in cui sia Christina a perseguire le sue ambizioni e a raggiungere i suoi successi professionali, a discapito della realizzazione personale di Owen; nella seconda a cosa succederebbe se invece la Yang assecondasse il desiderio di famiglia e di genitorialità di Owen, rinunciando alla sua carriera da pluripremiato cardiochirurgo.
La morale dell'episodio è che, qualunque sia la strada che imboccheranno, uno dei due sarà destinato a soffrire perché costretto a rinunciare a ciò che più desidera, a ciò che lo rappresenta, a sé stesso.
I quesiti centrali, che vengono ripetuti in più momenti dell'episodio, sono: Sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?

Finita la puntata Sara mi guarda e si dice contenta per l'ennesimo tiro a segno di Shonda (Rimes, autrice della serie ndr.). Ma così come è arrivata se ne va, non vuole fare tardi perché l'indomani sarà martedì e per lei equivale al primo giorno lavorativo della settimana.
Io trattengo a stento le lacrime, ho il magone in gola e cerco solo qualcuno pronto ad accogliere la mia disperazione.
Sara mi saluta, mi da due baci e chiude dietro di sé la porta di casa mia.
Io mi giro e corro in camera, dove c'è Marco (il mio compagno) sul letto, intento a guardare qualcosa sull'iPad. Mi tuffo tra le sue braccia. Gli chiedo solo di abbracciarmi e di non chiedermi il perché di ciò che sta per succedere, e scoppio in un pianto disperato fatto di lacrime e singhiozzi.

Quelle tre domande, quelle tre semplici domande, sono le stesse che mi accompagnano da tempo. Le stesse che ho il terrore di continuare a pormi tra qualche anno, quando ormai sarà troppo tardi per tornare indietro.
Viviamo in un periodo storico, sociale e culturale particolare. Un periodo il cui emblema è racchiuso nella parola "crisi".
Ne sentiamo parlare alla TV, ne leggiamo quotidianamente sui giornali e in internet, ne abbiamo timore anche quando non ci tocca in prima persona tanto è il clima di terrore che percepiamo intorno a noi.
Ma è davvero giusto che sia un evento esterno a decidere per il destino della nostra esistenza?

Ai tempi della messa in onda dell'episodio di G'sA di cui ho parlato sopra stavo vivendo un condizione che molti miei coetanei sognano. Un lavoro a tempo indeterminato, la convivenza dopo tanti anni di fidanzamento, la possibilità  di essere indipendenti e di togliersi soddisfazioni che solo una disponibilità economica consente.
Ma poi ti svegli un giorno e ti rendi conto di essere diventata nella vita tutto ciò che ti eri promessa di non diventare; di aver rinunciato alle tue ambizioni, di fare un lavoro che ti aliena e che giorno dopo giorno fa morire tutti gli aspetti personali e professionali che ti rendono te solo per la certezza di quei mille euro a fine mese. Ti senti in gabbia, una gabbia dorata dalla quale vedi le infinite possibilità di felicità e soddisfazione che potresti cogliere ma dalla quale non trovi una via d'uscita. Senti che quella gabbia ti costringe e vivi con l'angoscia di non uscirne mai.

Passi mesi di sconforto, di introspezione, di apatia, di messa in discussione, di ricerca.
Fino a quando non realizzi che in quella gabbia dorata ti ci sei messa con le tue mani, che sei tu l'unica a potertene liberare, che il resto sono tutte scuse.

Che nella vita ci vuole coraggio per essere felici. Che mi fa più paura la sicurezza di quello che ho che l'incertezza e l'ignoto che mi attende.

E così mi domando per l'ennesima volta: sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?

Ho deciso. Trovo il coraggio di ascoltarmi e mi licenzio.
La gabbia non c'è più. Sono libera, ora.

martedì 3 marzo 2015

Pensieri sul concetto di Lovemark

In una puntata della quinta stagione di Grey’s Anatomy, Izzie deve valutare il servizio catering per le nozze di Meredith e Derek ma non può assaggiare niente dato che, di li a poche ore, dovrà essere operata. Chiede così ad Alex di descriverle il sapore del gambero e del pollo in modo da poter decidere quale dei due piatti inserire nel menù. Inizialmente Alex, un po’ come faremmo tutti, si limita banalmente ad affermare che il gambero sa di gambero e il pollo sa di pollo. Poi capisce che organizzare quel matrimonio è importante per Izzie e che lei ha bisogno di qualcosa di più che un commento ovvio. Di qualcosa che vada al di là di ciò che conosce già.

Alex da nuovamente un morso, prima a l’uno poi all’altro, e le dice che “il gambero è un po’ dolce e piccante. Sai, un po’ come la nostra prima sera. La parte bella. Quella in cui ti ho baciata sul portico. Il pollo è come una gita al mare in macchina, con i finestrini giù e il cane che si sporge. Come quando sei piccolo. Sa di sale. Sa di buono.”
Il commento ovvio e banale di Alex ricorda le vecchie réclame, nelle quali i prodotti venivano presentati descrivendone modalità d’uso, benefici e funzionalità. Lo spettatore si trovava davanti ad uno spot che gli consentiva di conoscere il brand e di riconoscerlo e sceglierlo nel punto vendita.
La prova da superare per il brand, una volta essere stato acquistato, era dimostrare di possedere la qualità che prometteva, di aver meritato che la scelta fosse ricaduta su di lui e di essere all’altezza del differenziale di prezzo rispetto ad un prodotto “non marca”, convincendo in questo modo il consumatore a ripetere l’acquisto nel tempo.
Nell’era postmoderna – caratterizzata dalla proliferazione di mezzi di comunicazione di massa, dal moltiplicarsi dell’offerta, dal nascere continuo di nuove private label, dalla presenza costante di promozioni – il consumatore è divenuto più esigente, più selettivo e più autonomo; in grado di comprendere il funzionamento del brand e come questo intende agire su di lui. Ha acquisito competenza nel muoversi all’interno del mondo dei consumi. Di conseguenza, il brand con le sue strategie non “attacca” più, non è più sufficiente a garantire la fidelizzazione del consumatore.
È necessario che le aziende superino se stesse, che inventino un nuovo modo di comunicare con il consumatore.
Un po’ come ha fatto Alex con Izzie, il brand dovrebbe parlare di se raccontando una storia, che è anche la storia del consumatore. Storia di un mondo possibile e ideale nel quale portare il consumatore. Storia di un sogno che, con il brand accanto, può diventare realtà.
Raccontare storie per parlare di un prodotto o di un servizio è una degli elementi che Kevin Roberts, CEO Worldwide di Saatchi & Saatchi, indica come capace di far sbocciare tra consumatore e brand un nuovo tipo di sentimento: l’Amore.
È costruendo una relazione duratura con il consumatore, infatti, che un brand può fare il salto di qualità. E quale sentimento riesce a coinvolgerci tanto a lungo e intensamente quanto l’amore?
Come indica il titolo stesso del suo testo, è il Lovemark il futuro oltre il brand; la nuova frontiera del marketing.
I tre componenti necessari per costruire un Lovemark sono: Mistero, Sensualità e Intimità.
È mettendo in campo costantemente e contemporaneamente questi tre elementi che Roberts assicura alle aziende di poter far innamorare i consumatori, lavorando sulle loro emozioni e sul loro coinvolgimento passionale.
Mistero e Intimità consentono di creare un legame empatico e di lunga durata con il consumatore, andando ad attingere dai suoi sogni, dalla sua storia e dalle sue aspirazioni. Producendo un meccanismo di identificazione tra individuo e marca.
La Sensualità – termine che richiama i cinque sensi – rappresenta invece la scorciatoia diretta verso le emozioni umane. I cinque sensi sono talmente diretti ed immediati che non si possono né ignorare né ingannare. Riescono a parlare direttamente al consumatore con il linguaggio delle emozioni, senza bisogno di parole.
Le marche che raggiungono la status di Lovemark sono quelle che riescono ad evocare nel consumatore un sentimento di grande Rispetto e che, facendoci innamorare di se, ottengono la nostra Fedeltà Oltre la Ragione.
Quello che un Lovemark si propone di fare è mettere il consumatore al centro della sua ricerca, prestando attenzione alle cose che spera e sogna; a quello che ama, che odia e che teme; a ciò che vuole e di cui ha bisogno, ma anche a ciò che lo annoia. Il Lovemark non si deve interessare semplicemente a quello che il consumatore acquista e usa ma deve rivolgere il suo sguardo a quello che per l’individuo ha significato e importanza. A cosa per lui conta di più. A quello che lo fa emozionare.

Se Alex potesse scegliere, voterebbe senz’altro per il gambero.  E voi?