martedì 13 marzo 2012

Un incontro che ti cambia la vita

Una scena del film "Quasi amici - Intouchables"
Mercoledì scorso ho accettato l’invito del mio fidanzato e di mia sorella ad andare a vedere “Quasi amici” e non mi sono assolutamente pentita di aver investito 6euro del mio budget mensile al cinema!
Un film pieno di vita, che affronta il tema della diversità facendo commuovere - quando è giusto - ma soprattutto con una comicità che a tratti è disarmante.
La storia è quella di Driss, giovanotto di colore cresciuto in Francia e non ben integrato, che non avendo i mezzi legittimi per raggiungere gli scopi promossi dalla società si trova costretto a mettere in atto comportamenti devianti e criminali; e di Philippe, miliardario parigino appassionato di musica classica e di arte, costretto alla sedia a rotelle dopo che un incidente con il parapendio l’ha reso tetraplegico.
Alla ricerca di una firma per ottenere il sussidio di disoccupazione, Driss si reca a casa di Philippe, che ha indetto dei colloqui per assumere una persona che lo assista in ogni momento della giornata e lo aiuti nella fisioterapia.
Al di là di ogni previsione, dato l’atteggiamento totalmente disinteressato con cui si presenta al colloquio e viste le inesistenti referenze per il ruolo ricercato, Driss viene assunto.
Il suo atteggiamento sopra le righe rispetto ai canoni imposti dall’etichetta alto-borghese porta scompiglio nella casa e nelle vite di chi la abita, ma soprattutto riporta Philippe alla vita. Già, perché molto spesso il timore nei confronti della disabilità porta a percepire e considerare l’altro-disabile come diverso da noi ed a rapportarsi ad esso in maniera non naturale.
Di questo ne so qualcosa dato che dal mese di luglio assisto una giovane donna che, a seguito della somministrazione di un medicinale a cui era inconsapevolmente allergica, ha perso la vista, la capacità di articolare correttamente le parole e quasi totalmente la mobilità degli arti superiori ed inferiori. Dopo il nostro primo incontro, in seguito al quale sono stata “assunta” e durante il quale era presente sua madre, che ha avuto la premura di tradurmi fedelmente ogni sua parola in modo da consentire che mi abituassi al suo linguaggio, mi attanagliava il timore di non essere all’altezza delle sue esigenze, di non essere in grado di rapportarmi con lei in maniera adeguata, di dire o fare qualcosa che avrebbe potuto offenderla. Il pensiero di non comprendere le sue parole mi preoccupava non poco. Come dovevo comportarmi? Sarei stata scortese a chiederle di ripetermi le cose? Domande banali come queste mi riempivano la testa. Paradossalmente è stata proprio lei a mettermi a mio agio e a venirmi incontro, parlando lentamente e sforzandosi di articolare quanto meglio poteva ogni singola parola.
È una persona che mi sta insegnando molto, soprattutto perché, pur non essendole stata riservata una facile esistenza, non ha perso il sorriso, l’ironia e la voglia di vivere.
Dopo questa parentesi personale, torniamo a noi!
Ho preso in considerazione il film “Quasi amici” non tanto per la trama in generale (che pure offrirebbe molto di cui parlare), quanto per una scena in particolare. Philippe si trova in una galleria d’arte intento ad acquistare un quadro per una cifra che Driss trova assolutamente spropositata, data la natura dello stesso. Per lui, infatti, in quella tela è raffigurata solo un'inutile macchia rossa che chiunque sarebbe stato in grado di fare. Di fronte a quel quadro, in attesa di sapere la cifra esatta a cui è in vendita, Philippe domanda a Driss perché, secondo lui, la gente si interessi all’arte. Il ragazzo, non avendo mai riflettuto sulla questione, risponde “Perché è un business!” e Philippe, che è al dentro dell’ambiente da tutta la vita e che ha un animo più sensibile afferma: “No. Perché è la sola traccia del nostro passaggio sulla terra.”
Mentre veniva posta questa domanda, e prima ancora di ascoltare la risposta, ho pensato che se sulla scena ci fosse stato Pierre Bourdieu avrebbe sicuramente risposto “Per una questione di capitale culturale e di habitus".
Il capitale culturale è l'insieme delle conoscenze, dei valori e degli atteggiamenti nei riguardi della cultura che la famiglia (ma soprattutto la madre) trasmette al figlio. Conseguenza del capitale culturale, l'habitus è l'insieme coerente di abitudini, capacità, caratteri distintivi che formano l’individuo attraverso un condizionamento non cosciente e l’interiorizzazione dei modi di essere propri di un ambiente sociale. Tale nozione consente - tra l'altro - di comprendere in cosa consiste quello sbarramento che impedisce l’accesso ai luoghi di alta cultura. Questo è dato non tanto da una mancanza di mezzi finanziari o di conoscenza, quanto dall’impossibilità di familiarizzarsi con l’ambiente, di sentirsi a proprio agio in un luogo al quale si è consapevoli di non appartenere. In più chi possiede un certo capitale culturale ed un relativo habitus sarà anche in grado di apprezzare a pieno certe forme di arte. Si generano in questo modo due gusti diversi: il lusso e l'estetica popolare.
Inoltre, dato che il capitale culturale non è statico e fine a sé stesso ma anzi trasformabile, ne consegue che chi possiede cultura può investirla e trasformarla in capitale economico, capitale sociale e capitale simbolico. Sempre per una questione di capitale culturale, inoltre, accade sovente che non soltanto le classi sociali e l'habitus ma anche certe professioni vengano "tramandate" di padre in figlio.
Ora, è fuor di dubbio che chi ha un elevato capitale culturale di base sarà più avvantaggiato rispetto a chi proviene da famiglie più povere culturalmente a raggiungere certe posizioni, a frequentare certi ambienti e ad avvicinarsi a certe forme di arte e cultura. Tuttavia viviamo in una società dove è possibile la mobilità verticale e dove, per quanto è indubbio il ruolo che la famiglia possiede nell'educare e socializzare i figli, c'è la possibilità di migliorare la propria condizione rispetto a quella di partenza e aumentare il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. La formazione scolastica (e quella universitaria laddove ci sia) in primis ma anche la lettura, il documentarsi in generale, l'ascoltare gli altri e far tesoro dei loro insegnamenti, i viaggi, frequentare certi luoghi o eventi- e chi più ne ha più ne metta - possono arricchire in varie fasi della vita il personale bagaglio culturale.
Un po' come è successo a Driss, che seguendo Philippe tra musei, teatri e concerti di musica classica ha potuto non solo apprezzare nuove forme artistiche ma dare voce ad aspirazioni pittoriche che probabilmente neanche immaginava di possedere, è stato messo nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi promossi socialmente con mezzi leciti ed uscire così dal ghetto!
In cambio Philippe ha trovato un amico vero, qualcuno che lo considerasse per quello che è: una persona con una dignità, dei sentimenti ed il diritto di vivere una vita piena nonostante l'involucro difettoso rappresentato dal suo corpo.

mercoledì 7 marzo 2012

Punti di vista...

"Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a veder voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva." dal film L'Attimo Fuggente

È da un po’ di tempo che rifletto sull’idea di creare un blog.
Il bisogno di pormi domande e di provare a darmi risposte su quanto succede nel mondo circostante, di avere una mia opinione sulle cose o di riflettere sugli argomenti più disparati sono frutto di un mix tra caratteristiche personali innate ed altre acquisite nel corso della vita, soprattutto durante il mio percorso di studi sociologici.
Tuttavia, nessuno degli argomenti su cui fino a questo momento avevo appuntato delle note mi sembrava degno di essere “il primo”. Non era mai scattata in me quella scintilla che dà la carica per intraprendere un nuovo percorso. Mai. Fino all’altra sera, quando sono andata al cinema con mia sorella a vedere Paradiso Amaro.
Un film in cui George Clooney, uomo che ha una visione ben precisa della vita e del denaro e che sulla base delle proprie convinzioni ha improntato i suoi ruoli di marito e di padre, si trova improvvisamente a vivere il dramma della perdita della moglie. Come è successo ad ognuno di noi almeno una volta nella vita, Matt King (Clooney nel film) si trova ad ammettere i propri errori quando ormai è troppo tardi, a promettere a sé stesso e alla moglie morente di cambiare e di migliorare se solo gli venisse concessa una seconda possibilità. Insomma, quel senno di poi che accompagna tutti quando si vivono tragedie più o meno grandi. Ma non finisce qui, perché proprio quando si sente pronto ad imparare dai propri errori e a cambiare King riceve due brutte notizie. La prima è che il coma della moglie è irreversibile e che, per volontà della stessa, le macchine che la tengono in vita saranno staccate. La seconda è che quella moglie che lui aveva sempre conosciuto come amorevole e perfetta, e nei confronti della quale si sente in debito, in realtà lo tradiva e stava per chiedere il divorzio. Da qui il duplice dramma: da un lato il dolore per il lutto imminente, per la consapevolezza di perdere la persona amata (nonostante il tempo e gli episodi della vita avessero affievolito il sentimento rendendo il rapporto più che altro un'abitudine); dall’altro l’irritazione per il tradimento, la frustrazione per l’impossibilità di avere un confronto con la moglie e di ricevere da parte sua le risposte a tutte le domande che la nuova scoperta inevitabilmente pone, la rabbia di dover dire addio a qualcuno che pensavi di conoscere ma che – in realtà – scopri di non conoscere affatto.
Un film profondo, drammatico e ironico allo stesso tempo, che offrirebbe molti spunti di riflessione. Ovviamente non posso svilupparli tutti in questa occasione, ma spero non ne mancheranno altre per ritornare a citare questa pellicola.
Quello a cui oggi mi voglio rifare è che Paradiso Amaro è uno di quei film in cui i dialoghi non hanno il ruolo di esaurire tutte le argomentazioni. Al contrario. Come molti film profondi, infatti, viene lasciato allo spettatore il compito di scavare nella storia, di capire i personaggi anche nei gesti, di andare al di là delle ovvietà, di interpretare l’universo immenso che può celarsi dietro ad una semplice frase o ad un'espressione. Ma si tratta di un’impresa tutt’altro che facile. Perché? Beh, innanzi tutto perché non tutti possiedono quella sensibilità tale da consentire di mettersi nei panni degli altri. È molto più facile – anche se non sempre questo garantisce la riuscita dell’impresa! – quando le cose vengono dette chiaramente, senza troppi sottintesi e senza il bisogno di fare quello sforzo cognitivo in più per capire l’altro. In secondo luogo perché si tende a valutare con due pesi diversi sé stessi e gli altri e a vivere con empatia solo chi ha un'esperienza simile alla nostra. In ultimo perché si è portati a prendere per vero e ad attribuire una valenza di significatività solo alle cose che diamo per certo, che abbiamo vissuto sulla nostra pelle e che fanno parte della nostra storia personale. Insomma è difficile (ma non per questo impossibile) prescindere da quella soggettività che caratterizza il vissuto di ognuno.
Il corso di studi in sociologia mi ha insegnato proprio questo: a spogliarmi da ogni giudizio di valore e a guardare ad ogni singolo fatto da prospettive diverse, in modo da poter dare una valutazione oggettiva ed obiettiva di quello che vedo. E a non pensare che ciò che non è esplicito, manifesto, dal mio punto di vista allora non esiste!