Il tema della scuola da sempre cattura la mia attenzione. Per una serie di motivi.
Innanzi tutto perché mi appassiona tutto ciò che riguarda il mondo dell'infanzia e dell'adolescenza, del quale l'istruzione riveste un ruolo fondamentale. E poi perché mi interessa analizzare l'evoluzione del sistema scolastico. Come è cambiato negli anni il ruolo dell'insegnante, quale evoluzione ha avuto il rapporto docente - discente, come i genitori degli alunni valutano la figura dei professori e come questa valutazione possa incidere sul modo dei figli di rivolgersi a questi. Tanto per citare alcuni esempi.
In questi giorni sono molti i feedback che ho ricevuto e che mi hanno portata a riflettere sul l'istruzione pubblica in Italia.
Primo su tutti l'ambitissimo "concorsone", al quale hanno preso parte i circa trecentomila aspiranti insegnanti che ambiscono ad una delle quasi dodicimila cattedre messe a disposizione dal MIUR.
Il secondo - e probabilmente per qualcuno meno nobile dei tre - la visione del film, datato 1995 e ispirato al romanzo autobiografico "My posse don't do their homework" di LouAnne Johnson, "Pensieri pericolosi. Dangerous minds". (Lo ammetto, la figura del professore alla "L'attimo fuggente" mi da una carica pazzesca. Vorrei essere io quella persona per qualcuno!)
Terzo, il commento del Direttore del TG di La7 Enrico Mentana su Twitter a "La più bella del mondo", il monologo di Roberto Benigni andato in onda nella prima serata di Rai Uno di lunedì 17 dicembre, nel quale il comico fiorentino ha raccontato la Costituzione italiana. Twitter che cita: "Quand'ero ragazzo la Costituzione si studiava col prezioso Bobbio-Pierandrei. Se ora ci vuole Benigni per scoprirla la scuola va proprio male".
La breve riflessione che voglio condividere è che, a mio avviso, quella dell'insegnamento - qualunque sia il grado in cui viene esercitata - è una pratica che non può essere ridotta alla mera attività di trasmissione di nozioni da un insegnante ai suoi allievi sulla base di un programma didattico stabilito a livello nazionale.
L'insegnante dovrebbe essere qualcosa di più nobile di un semplice funzionario statale dato che ha un potere nelle sue mani di cui a volte non è pienamente consapevole: quello di formare gli adulti di domani.
Dovrebbe perciò essere prima di tutto una persona appassionata della materia che insegna e del mestiere che si appresta a fare. Perché solo con la passione si trasmette qualcosa che viene non solo appreso dall'alunno sul momento e per quel momento ma interiorizzato, coltivato, ricordato nel tempo.
Ma soprattutto una persona che abbia rispetto per le categorie sociali con cui entra in contatto (bambini, ragazzi, adolescenti); che riconosca l'effettivo valore del ruolo che ricopre e ne sappia fare buon uso.
Il suo compito dovrebbe essere non solo quello di educare i ragazzi alla letteratura, alla matematica, alla storia, alla geografia ma alla vita. Far capire loro che la cultura è uno strumento che gli permetterà di essere consapevoli del mondo che li circonda, di riflettere sul genere di persona che vogliono essere e reali artefici del proprio destino.
Dovrebbe infondere nelle loro menti il concetto che andare a scuola non è un obbligo noioso a cui sono stati costretti dai "grandi" ma un'occasione di crescita di cui dover fare tesoro perché solo la conoscenza produce ragionamento, attiva la mente, genera nuove idee.
"E ora, miei adorati, imparerete di nuovo a pensare con la vostra testa, imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo."
giovedì 20 dicembre 2012
Il potere della cultura
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mercoledì 14 novembre 2012
A ognuno il suo mestiere...
Ho da poco tempo frequentato un corso di formazione organizzato dall'ISTAT e rivolto a chi, come me, nel prossimo mese si dedicherà all'attività di rilevatore per una ricerca commissionata ad ogni nazione dalla Comunità Europea.
Il progetto, al di là del tema oggetto di indagine che potrebbe essere considerato più o meno interessante, ha una sua importanza, una sua ragion d'essere, una dignità ma soprattutto ha alle spalle un duro lavoro svolto dai ricercatori in fase di progettazione, prova e revisione del questionario.
Qualunque domanda e qualunque tipo di alternativa di risposta proposte, qualsiasi tipo di indicazioni date al rilevatore su come o cosa leggere delle informazioni indicate, hanno un loro perché. Non sono stati inseriti per caso.
Ci sono inoltre tutta una serie di regole sul comportamento in caso di intervista con questionario che il rilevatore dovrebbe rigorosamente rispettare per non compromettere la qualità del dato.
Oltre a ciò, sarebbe auspicabile che questi comprenda a pieno quali sono le finalità della ricerca e qual'è il significato che il ricercatore attribuisce alle varie domande e/o sezioni del questionario in modo tale che ci sia una univocità di interpretazione che potrà essere trasmessa dall'intervistatore all'intervistato nel caso in cui quest'ultimo chieda chiarimenti.
Tutto questo potrebbe essere "recepito" e appreso in maniera sufficiente durante un corso di formazione di così poche ore - nel caso in cui non si tratti di nozioni già acquisite - solo se il discente è effettivamente interessato e motivato a svolgere al meglio il proprio lavoro. Altrimenti potrebbe banalizzare il suo compito e compromettere la rilevazione. Come? Non leggendo le domande per intero e nel modo in cui sono state scritte; non enunciando tutte le alternative di risposta proposte; saltando a piè pari una domanda solo perché si pensa di poter rispondere per l'intervistato o addirittura perché si pensa che "l'intervistato potrebbe pensare che questa domanda è banale perciò io non la pongo..." (E vi assicuro che durante il corso ho sentito cose anche peggiori... Poi mi inacidisco e faccio un casino visto che io credo fermamente nella ricerca sociale e mi imbestialisco se c'è chi la maltratta. E qui chiudo altrimenti la cosa potrebbe degenerare e potrei passarmene con gli insulti!).
Perciò, se è vero che un corso di formazione come quello di cui ho parlato può fornire le indicazioni generali per svolgere bene il compito di rilevatore, è pur vero che solo chi ha frequentato un corso di laurea in sociologia e, in particolare, ha studiato metodologia e tecnica della ricerca sociale, può veramente conoscere e sentire il peso della responsabilità di una buona rilevazione.
Perciò, è vero che ogni persona è a se e che conta la serietà con cui le cose si fanno, però noi studenti di sociologia dovremmo essere largamente preferiti quando si fanno le selezioni per questo genere di lavoro.
Il progetto, al di là del tema oggetto di indagine che potrebbe essere considerato più o meno interessante, ha una sua importanza, una sua ragion d'essere, una dignità ma soprattutto ha alle spalle un duro lavoro svolto dai ricercatori in fase di progettazione, prova e revisione del questionario.
Qualunque domanda e qualunque tipo di alternativa di risposta proposte, qualsiasi tipo di indicazioni date al rilevatore su come o cosa leggere delle informazioni indicate, hanno un loro perché. Non sono stati inseriti per caso.
Ci sono inoltre tutta una serie di regole sul comportamento in caso di intervista con questionario che il rilevatore dovrebbe rigorosamente rispettare per non compromettere la qualità del dato.
Oltre a ciò, sarebbe auspicabile che questi comprenda a pieno quali sono le finalità della ricerca e qual'è il significato che il ricercatore attribuisce alle varie domande e/o sezioni del questionario in modo tale che ci sia una univocità di interpretazione che potrà essere trasmessa dall'intervistatore all'intervistato nel caso in cui quest'ultimo chieda chiarimenti.
Tutto questo potrebbe essere "recepito" e appreso in maniera sufficiente durante un corso di formazione di così poche ore - nel caso in cui non si tratti di nozioni già acquisite - solo se il discente è effettivamente interessato e motivato a svolgere al meglio il proprio lavoro. Altrimenti potrebbe banalizzare il suo compito e compromettere la rilevazione. Come? Non leggendo le domande per intero e nel modo in cui sono state scritte; non enunciando tutte le alternative di risposta proposte; saltando a piè pari una domanda solo perché si pensa di poter rispondere per l'intervistato o addirittura perché si pensa che "l'intervistato potrebbe pensare che questa domanda è banale perciò io non la pongo..." (E vi assicuro che durante il corso ho sentito cose anche peggiori... Poi mi inacidisco e faccio un casino visto che io credo fermamente nella ricerca sociale e mi imbestialisco se c'è chi la maltratta. E qui chiudo altrimenti la cosa potrebbe degenerare e potrei passarmene con gli insulti!).
Perciò, se è vero che un corso di formazione come quello di cui ho parlato può fornire le indicazioni generali per svolgere bene il compito di rilevatore, è pur vero che solo chi ha frequentato un corso di laurea in sociologia e, in particolare, ha studiato metodologia e tecnica della ricerca sociale, può veramente conoscere e sentire il peso della responsabilità di una buona rilevazione.
Perciò, è vero che ogni persona è a se e che conta la serietà con cui le cose si fanno, però noi studenti di sociologia dovremmo essere largamente preferiti quando si fanno le selezioni per questo genere di lavoro.
venerdì 6 aprile 2012
La costruzione dell'identità attraverso i Social Network
Non sono mai stata particolarmente attratta dai Social Network.
Già dai tempi in cui in rete spopolava My Space non ho sentito l'esigenza di creare un profilo per "mettere in piazza" la mia vita. Si, usavo Internet per fare ricerche o visitare siti, prenotare voli o acquistare altri servizi, chattare con gli amici tramite MSN, inviare e ricevere e-mail. Ma dentro di me non è mai scattato il bisogno di diventare utente di questo genere di siti sociali.
All'epoca poi - si parla dei primi anni 2000 - i primi Social Network contavano pochi utenti sia nel mondo sia nella mia cerchia di amici, perciò non mi sentivo assolutamente un pesce fuor d'acqua.
Con il tempo la tendenza alla creazione dei Social Network è andata aumentando e, soprattutto con la nascita di Facebook, c'è stato in ogni parte del mondo un vero e proprio boom di iscrizioni.
Anche tra i miei amici è diventato difficile trovare qualcuno che non sia iscritto a Facebook, Twitter o LinkedIn. Inoltre mi è capitato di incontrare persone che non vedevo o sentivo da tempo e la prima cosa che mi sono sentita dire, ancor prima del classico - e sempre di buona educazione - "Come stai?" era "Ti ho cercata su Facebook. Non ci sei? Devi assolutamente iscriversti così ci teniamo in contatto."
A quel punto ho iniziato a diventare bersaglio di persuasione da parte di alcuni amici che non mancavano occasione per illustrarmi i molteplici benefici che l'iscrizione a questo Social Network avrebbe potuto portare alla mia vita (hai la possibilità di restare in contatto con i tuoi amici o fartene di nuovi; cercare e contattare persone in ogni angolo della Terra; essere sempre aggiornato su eventi o novità di ogni genere). Ma continuavo a non essere interessata e per difendere la mia posizione di totale disinteresse sono passata da pesce fuor d'acqua a bastian contrario.
Non riuscivo proprio a capire cosa spingesse così tante persone a mettere in mostra davanti a tutti ogni istante ed ogni pensiero della propria vita, a pubblicare le foto delle vacanze o di una serata in famiglia, a caricare video che ritraggono una serata goliardica con gli amici.
Ho provato spesso ad interrogarmi in proposito e l'unica motivazione - probabilmente banale - che riuscivo a darmi era che, nell'era della televisione e dei reality show, l'unica cosa che conta per le persone è l'apparire agli occhi degli altri come i più belli, i più simpatici, i più divertenti, i più attivi, i più informati, i più intelligenti - e chi più ne ha più ne metta.
Questa conclusione però, seppur plausibile, mi sembrava superficiale e limitante per il genere umano, oltre che non generalizzabile a tutti.
Intenzionata a capirne di più sulla questione ho pensato che ad aiutarmi a trovare rapidamente una risposta alla mia domanda sarebbe potuta essere solamente una sorta di osservazione partecipante: anche io avrei dovuto iscrivermi.
Ma diventare un'utente di Facebook avrebbe significato andare contro la mia natura, contro tutto ciò che a lungo avevo sostenuto, contro le convinzioni difese tanto strenuamente dagli attacchi dei miei amici. E non era un passo che mi sentivo disposta a compiere.
Nel frattempo, anche se non con la stessa portata di Facebook, un altro Social Network si andava facendo strada: Twitter.
Ne avevo sentito parlare soprattutto perché ai tempi erano molti quegli atristi o quei personaggi della politica, del giornalismo o dello spettacolo d'oltre oceano che utilizzavano i 140 caratteri dell'uccellino più famoso della rete per divulgare nella maniera più immediata possibili notizia sul mondo, su di loro o sulla propria vita professionale.
Oltretutto nel 2009 - anno cui risale la mia iscrizione - Twitter in Italia era ancora poco diffuso. Quasi nessuna delle persone che conosco vi era iscritta e questo mi avrebbe garantito la possibilità di restare fedele a me stessa e alle mie convinzioni.
Perciò ho deciso di lanciarmi in questa esperienza creando il mio profilo nella speranza che questa decisione avrebbe potuto essermi utile per il mio obiettivo.
Qualche tempo dopo mi sono imbattuta in un libro scritto da Anthony Giddens dal titolo Identità e società moderna che, nonostante non trattasse neanche lontanamente l'argomento internet/Social Network, ho trovato illuminante.
Quello che sostiene l'autore è che nella modernità le persone hanno bisogno di un modo totalmente nuovo, rispetto a quanto accadeva nelle sociatà tradizionali, per cosruire la propria identità. Hanno bisogno di una costante narrazione di sé per creare una continuità biografica tra tutti gli "io" che costituiscono le proprie esistenze.
Possibile che la risposta alla mia domanda sia che la necessità che si cela dietro alla tendenza degli individui di iscriversi ai Social Network è quella di un progetto di riflessività del sé?
Nel tentativo di dare una risposta al quesito procediamo per gradi.
Il presupposto da cui dobbiamo partire è che il mondo in cui viviamo oggi è un mondo globalizzato, caratterizzato da una forte complessità e che continua a cambiare con ritmi veloci. Un mondo in cui la condizione in cui vertono gli individui dei Paesi industrializzati è definita di frammentazione.
A diventare frammentata è l'identità dell'individuo, la quale deve fare i conti con la crescente complessità del sistema sociale, con il processo di pluralizzazione dei coinvolgimenti di ruolo e con il dilatarsi - per il soggetto stesso - delle possibilità di scelta.
L'identità non è più, come accadeva un tempo, qualcosa di dato una volta per sempre. Bensì essa ha bisogno di essere continuamente creata e mantenuta attraverso l'attività riflessiva dell'individuo.
Mentre l'individuo premoderno ritrovava sé stesso dentro un orizzonte di senso condiviso con la comunità di appartenenza, poteva vivere una vita già decisa per lui e percepirla come una buona vita, aderiva completamente ai ruoli sociali che impersonava e riusciva a dare un senso alla propria esistenza, l'individuo moderno vive in una società in cui la tradizione è infranta per sempre e deve decidere da sé chi è e che cosa vuole essere.
La conseguenza di ciò è che l'individuo moderno è molto meno certo di sé di quanto lo fosse l'individuo pre-moderno. Ha la possibilità di essere più individuo, più autonomo, più unico e più sé stesso di quanto fosse consentito agli uomini del passato; partecipa a più ruoli ed è inserito in cerchie sociali sempre più numerose ed ampie. Questo comporta che egli debba autodefinirsi a partire da una gamma maggiore di autorappresentazioni e porsi problemi di scelta nuovi.
In altre parole, mentre nelle società tradizionali la narrazione di sé era quasi automatica, dal momento che le esperienze mediate erano limitate e la vita quotidiana era regolata dalle situazioni, dagli oggetti e dalle persone presenti nella comunità, per dare un senso alla propria identità l'individuo contemporaneo deve costantemente porsi degli interrogativi su cosa sta facendo, perché lo sta facendo, cosa vuole dalla sua vita, cosa sente e a cosa sta pensando.
In questo scenario la riflessività è l'attività che lo aiuta nel processo di costruzione di una continuità biografica. Come afferma Giddens, quello in cui consiste il progetto riflessivo del sé è rendere coerenti le proprie vicende biografiche anche quando queste siano sottoposte a continue rivisitazioni.
Cosa c'entra tutto questo con i Social Network? Come possono aiutarci nel processo di autoriflessività del sé?
Se accedo a Twitter e clicco in pulsante Profilo posto sulla barra degli strumenti posizionata in alto sulla Homepage, quello che immediatamente appare sullo schermo del mio computer è l'elenco di tutti i tweet da me fatti dal momento in cui mi sono iscritta e disposti in ordine cronologico dal più recente al più remoto.
Rileggendo quello che ho scritto il quadro che appare ai miei occhi è quello di una sorta di diario in formato web 2.0 della mia vita. Cosa ho fatto il 26 agosto, a cosa stavo pensando il 14 ottobre, che canzone mi andava di ascoltare il 10 febbraio.
Ogni volta che mi va, anche a distanza di tempo, ho la possibilità di ripercorrere attraverso la lettura dei miei tweet quella che è stata la mia vita, di vedere come sono cambiati i miei gusti, i miei interessi, le mie opinioni. Ricordarmi cosa ho fatto e dove ero in determinati giorni mentre "aggiornavo" il mio profilo.
Perciò quella che avviene mediante i Social Network è una continua narrazione di sé, un continuo raccontarsi non solo agli altri ma anche a noi stessi. Un po' come avveniva con il vecchio diario, questo tipo di siti Internet offre a ciascuno di noi la possibilità di guardarsi indietro, di vedere da dove si veniva, dove si è stati e progettare o provare ad immaginare dove si andrà.
Se si prende per valido ciò che sostiene Giddens si potrebbe spiegare come mai sempre più persone nel mondo sentono la necessità di iscriversi ai Social Network e parteciparvi in maniera attiva e costante nel tempo.
Quello che però ci terrei a sottolineare è che, a mio avviso, quella che si vive in Internet e sui Social Network non è la nostra vera vita ma solo una rappresentazione di essa. La vità è altro. Abbiamo bisogno di vedere le cose con i nostri occhi, di toccare con mano ciò che ci circonda, di respirare gli odori e i profumi dell'aria intorno a noi, di assaporare la vita sotto ogni aspetto, di ascoltare e rispondere ad ogni stimolo che proviene dall'ambiente. Dobbiamo provare sentimenti e sensazioni per essere vivi. Siamo fatti di corpo e memoria e questa è una cosa che non dobbiamo mai dimenticare e da cui non possiamo prescindere.
martedì 13 marzo 2012
Un incontro che ti cambia la vita
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| Una scena del film "Quasi amici - Intouchables" |
Un film pieno di vita, che affronta il tema della diversità facendo commuovere - quando è giusto - ma soprattutto con una comicità che a tratti è disarmante.
La storia è quella di Driss, giovanotto di colore cresciuto in Francia e non ben integrato, che non avendo i mezzi legittimi per raggiungere gli scopi promossi dalla società si trova costretto a mettere in atto comportamenti devianti e criminali; e di Philippe, miliardario parigino appassionato di musica classica e di arte, costretto alla sedia a rotelle dopo che un incidente con il parapendio l’ha reso tetraplegico.
Alla ricerca di una firma per ottenere il sussidio di disoccupazione, Driss si reca a casa di Philippe, che ha indetto dei colloqui per assumere una persona che lo assista in ogni momento della giornata e lo aiuti nella fisioterapia.
Al di là di ogni previsione, dato l’atteggiamento totalmente disinteressato con cui si presenta al colloquio e viste le inesistenti referenze per il ruolo ricercato, Driss viene assunto.
Il suo atteggiamento sopra le righe rispetto ai canoni imposti dall’etichetta alto-borghese porta scompiglio nella casa e nelle vite di chi la abita, ma soprattutto riporta Philippe alla vita. Già, perché molto spesso il timore nei confronti della disabilità porta a percepire e considerare l’altro-disabile come diverso da noi ed a rapportarsi ad esso in maniera non naturale.
Di questo ne so qualcosa dato che dal mese di luglio assisto una giovane donna che, a seguito della somministrazione di un medicinale a cui era inconsapevolmente allergica, ha perso la vista, la capacità di articolare correttamente le parole e quasi totalmente la mobilità degli arti superiori ed inferiori. Dopo il nostro primo incontro, in seguito al quale sono stata “assunta” e durante il quale era presente sua madre, che ha avuto la premura di tradurmi fedelmente ogni sua parola in modo da consentire che mi abituassi al suo linguaggio, mi attanagliava il timore di non essere all’altezza delle sue esigenze, di non essere in grado di rapportarmi con lei in maniera adeguata, di dire o fare qualcosa che avrebbe potuto offenderla. Il pensiero di non comprendere le sue parole mi preoccupava non poco. Come dovevo comportarmi? Sarei stata scortese a chiederle di ripetermi le cose? Domande banali come queste mi riempivano la testa. Paradossalmente è stata proprio lei a mettermi a mio agio e a venirmi incontro, parlando lentamente e sforzandosi di articolare quanto meglio poteva ogni singola parola.
È una persona che mi sta insegnando molto, soprattutto perché, pur non essendole stata riservata una facile esistenza, non ha perso il sorriso, l’ironia e la voglia di vivere.
Dopo questa parentesi personale, torniamo a noi!
Ho preso in considerazione il film “Quasi amici” non tanto per la trama in generale (che pure offrirebbe molto di cui parlare), quanto per una scena in particolare. Philippe si trova in una galleria d’arte intento ad acquistare un quadro per una cifra che Driss trova assolutamente spropositata, data la natura dello stesso. Per lui, infatti, in quella tela è raffigurata solo un'inutile macchia rossa che chiunque sarebbe stato in grado di fare. Di fronte a quel quadro, in attesa di sapere la cifra esatta a cui è in vendita, Philippe domanda a Driss perché, secondo lui, la gente si interessi all’arte. Il ragazzo, non avendo mai riflettuto sulla questione, risponde “Perché è un business!” e Philippe, che è al dentro dell’ambiente da tutta la vita e che ha un animo più sensibile afferma: “No. Perché è la sola traccia del nostro passaggio sulla terra.”
Mentre veniva posta questa domanda, e prima ancora di ascoltare la risposta, ho pensato che se sulla scena ci fosse stato Pierre Bourdieu avrebbe sicuramente risposto “Per una questione di capitale culturale e di habitus".
Il capitale culturale è l'insieme delle conoscenze, dei valori e degli atteggiamenti nei riguardi della cultura che la famiglia (ma soprattutto la madre) trasmette al figlio. Conseguenza del capitale culturale, l'habitus è l'insieme coerente di abitudini, capacità, caratteri distintivi che formano l’individuo attraverso un condizionamento non cosciente e l’interiorizzazione dei modi di essere propri di un ambiente sociale. Tale nozione consente - tra l'altro - di comprendere in cosa consiste quello sbarramento che impedisce l’accesso ai luoghi di alta cultura. Questo è dato non tanto da una mancanza di mezzi finanziari o di conoscenza, quanto dall’impossibilità di familiarizzarsi con l’ambiente, di sentirsi a proprio agio in un luogo al quale si è consapevoli di non appartenere. In più chi possiede un certo capitale culturale ed un relativo habitus sarà anche in grado di apprezzare a pieno certe forme di arte. Si generano in questo modo due gusti diversi: il lusso e l'estetica popolare.
Inoltre, dato che il capitale culturale non è statico e fine a sé stesso ma anzi trasformabile, ne consegue che chi possiede cultura può investirla e trasformarla in capitale economico, capitale sociale e capitale simbolico. Sempre per una questione di capitale culturale, inoltre, accade sovente che non soltanto le classi sociali e l'habitus ma anche certe professioni vengano "tramandate" di padre in figlio.
Ora, è fuor di dubbio che chi ha un elevato capitale culturale di base sarà più avvantaggiato rispetto a chi proviene da famiglie più povere culturalmente a raggiungere certe posizioni, a frequentare certi ambienti e ad avvicinarsi a certe forme di arte e cultura. Tuttavia viviamo in una società dove è possibile la mobilità verticale e dove, per quanto è indubbio il ruolo che la famiglia possiede nell'educare e socializzare i figli, c'è la possibilità di migliorare la propria condizione rispetto a quella di partenza e aumentare il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. La formazione scolastica (e quella universitaria laddove ci sia) in primis ma anche la lettura, il documentarsi in generale, l'ascoltare gli altri e far tesoro dei loro insegnamenti, i viaggi, frequentare certi luoghi o eventi- e chi più ne ha più ne metta - possono arricchire in varie fasi della vita il personale bagaglio culturale.
Un po' come è successo a Driss, che seguendo Philippe tra musei, teatri e concerti di musica classica ha potuto non solo apprezzare nuove forme artistiche ma dare voce ad aspirazioni pittoriche che probabilmente neanche immaginava di possedere, è stato messo nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi promossi socialmente con mezzi leciti ed uscire così dal ghetto!
In cambio Philippe ha trovato un amico vero, qualcuno che lo considerasse per quello che è: una persona con una dignità, dei sentimenti ed il diritto di vivere una vita piena nonostante l'involucro difettoso rappresentato dal suo corpo.
mercoledì 7 marzo 2012
Punti di vista...
"Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a veder voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva." dal film L'Attimo Fuggente
È da un po’ di tempo che rifletto sull’idea di creare un blog.
Il bisogno di pormi domande e di provare a darmi risposte su quanto succede nel mondo circostante, di avere una mia opinione sulle cose o di riflettere sugli argomenti più disparati sono frutto di un mix tra caratteristiche personali innate ed altre acquisite nel corso della vita, soprattutto durante il mio percorso di studi sociologici.
Tuttavia, nessuno degli argomenti su cui fino a questo momento avevo appuntato delle note mi sembrava degno di essere “il primo”. Non era mai scattata in me quella scintilla che dà la carica per intraprendere un nuovo percorso. Mai. Fino all’altra sera, quando sono andata al cinema con mia sorella a vedere Paradiso Amaro.
Un film in cui George Clooney, uomo che ha una visione ben precisa della vita e del denaro e che sulla base delle proprie convinzioni ha improntato i suoi ruoli di marito e di padre, si trova improvvisamente a vivere il dramma della perdita della moglie. Come è successo ad ognuno di noi almeno una volta nella vita, Matt King (Clooney nel film) si trova ad ammettere i propri errori quando ormai è troppo tardi, a promettere a sé stesso e alla moglie morente di cambiare e di migliorare se solo gli venisse concessa una seconda possibilità. Insomma, quel senno di poi che accompagna tutti quando si vivono tragedie più o meno grandi. Ma non finisce qui, perché proprio quando si sente pronto ad imparare dai propri errori e a cambiare King riceve due brutte notizie. La prima è che il coma della moglie è irreversibile e che, per volontà della stessa, le macchine che la tengono in vita saranno staccate. La seconda è che quella moglie che lui aveva sempre conosciuto come amorevole e perfetta, e nei confronti della quale si sente in debito, in realtà lo tradiva e stava per chiedere il divorzio. Da qui il duplice dramma: da un lato il dolore per il lutto imminente, per la consapevolezza di perdere la persona amata (nonostante il tempo e gli episodi della vita avessero affievolito il sentimento rendendo il rapporto più che altro un'abitudine); dall’altro l’irritazione per il tradimento, la frustrazione per l’impossibilità di avere un confronto con la moglie e di ricevere da parte sua le risposte a tutte le domande che la nuova scoperta inevitabilmente pone, la rabbia di dover dire addio a qualcuno che pensavi di conoscere ma che – in realtà – scopri di non conoscere affatto.
Un film profondo, drammatico e ironico allo stesso tempo, che offrirebbe molti spunti di riflessione. Ovviamente non posso svilupparli tutti in questa occasione, ma spero non ne mancheranno altre per ritornare a citare questa pellicola.
Quello a cui oggi mi voglio rifare è che Paradiso Amaro è uno di quei film in cui i dialoghi non hanno il ruolo di esaurire tutte le argomentazioni. Al contrario. Come molti film profondi, infatti, viene lasciato allo spettatore il compito di scavare nella storia, di capire i personaggi anche nei gesti, di andare al di là delle ovvietà, di interpretare l’universo immenso che può celarsi dietro ad una semplice frase o ad un'espressione. Ma si tratta di un’impresa tutt’altro che facile. Perché? Beh, innanzi tutto perché non tutti possiedono quella sensibilità tale da consentire di mettersi nei panni degli altri. È molto più facile – anche se non sempre questo garantisce la riuscita dell’impresa! – quando le cose vengono dette chiaramente, senza troppi sottintesi e senza il bisogno di fare quello sforzo cognitivo in più per capire l’altro. In secondo luogo perché si tende a valutare con due pesi diversi sé stessi e gli altri e a vivere con empatia solo chi ha un'esperienza simile alla nostra. In ultimo perché si è portati a prendere per vero e ad attribuire una valenza di significatività solo alle cose che diamo per certo, che abbiamo vissuto sulla nostra pelle e che fanno parte della nostra storia personale. Insomma è difficile (ma non per questo impossibile) prescindere da quella soggettività che caratterizza il vissuto di ognuno.
Il corso di studi in sociologia mi ha insegnato proprio questo: a spogliarmi da ogni giudizio di valore e a guardare ad ogni singolo fatto da prospettive diverse, in modo da poter dare una valutazione oggettiva ed obiettiva di quello che vedo. E a non pensare che ciò che non è esplicito, manifesto, dal mio punto di vista allora non esiste!
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